Lo confesso: a me la parola storytelling non piace. Sarà che vado matta per raccontare. Non è forse già magia sentirsi chiedere “Raccontami una storia” invece di “Fammi uno storytelling“?.
Storytelling: l’arte di raccontare
Il termine storytelling mi sta antipatico anche perché se ne abusa. Ormai è tutto un parlare di storytelling. Lo si mette ovunque, è di moda. Chissà perché ciclicamente ci fissiamo tanto con alcune parole e alcuni concetti. Il fatto è che se tutti usano un certo termine per identificare una certa cosa, devo rassegnarmi all’idea di usarlo anch’io, per potermi far capire (e non senza storcere il naso).
Qui però, dove parlo di me e di quello che faccio, concedetemi di parlare di “racconto“. Ecco, a me piace raccontare e ancora di più ascoltare storie. Sarà che “racconto” evoca in me un immergersi completamente, come quando da piccoli si ascoltava una favola e si era assolutamente certi che gli specchi potessero parlare. Che dire poi degli occhi che si sgranavano e la bocca che si apriva quando c’era un colpo di scena? Un racconto dovrebbe fare proprio questo: far entrare chi lo legge o lo ascolta dentro la storia con tutte le scarpe, i tacchi spuntati e le calze smagliate.
A cosa serve lo storytelling?
Per poter raccontare i propri obiettivi, valori e prodotti, come anche le origini e le persone che compongono il team in modo avvincente ed efficace. Così facendo potranno comunicare efficacemente con un pubblico di interlocutori e/o clienti, in essere e potenziali. Dietro a un’azienda, una persona, un progetto, un prodotto, ci sono storie bellissime, che meritano di essere raccontate.